Aggregazioni e misure dell’invisibile, di Claudio Cerritelli
* Dipingere partendo dalla totalità del nero significa per molti artisti sollecitare nel fondo scuro della materia il generarsi di una luce inquieta, vibrazione di segni come sfuggenti risonanze dell’inconscio. Nelle misure analitiche della pittura aniconica il nero è luogo di azzeramento e -insieme- produzione di tautologie che non escono dal dogma monocromatico, una somma di sguardi impliciti che si affermano una volta per tutte, senza possibilità di alcuna ulteriore dialettica.
Se la superficie è carica di ruvidi spessori il magma annerito evoca territori sconosciuti come il grembo misterioso della terra, in ogni caso il nero è aspirazione della luce, stato d’attesa in cui risiede la potenzialità illimitata dell’immagine, vastità di luoghi non detti, non ancora visibili.
D’altro lato, il nero può indicare l’immobilità della meditazione, il silenzio perenne che nega il clamore dei colori e attinge la pienezza della luce conquistata grado per grado. Nell’imponderabile dimensione del nero si profondono sostanze in continuo movimento, essenze segrete che vanno verso il visibile, passaggi di energia dove i punti più vicini sembrano lontani, e viceversa.
Altre varianti a queste soluzioni sono verificabili nelle molteplici storie creative in cui gli artisti affrontano il nero come valore luminoso senza fine, durata percettiva che si stacca dallo sguardo fisiologico per farsi visione interiore, in tensione con il lento rivelarsi della forma pura.
Nelle immagini dipinte da Elena Debiasio il supporto preparato con una lieve campitura di pigmenti si presenta come una vibrazione di fondo, fantasmatica estensione e dilatata profondità, una condizione ideale per immaginare bagliori che demarcano alcuni punti dello spazio.
In via preliminare la tela è dunque soggetta al tocco fluido delle pennellate, al velo sfumato del pigmento che accorda la sua funzione coprente al desiderio di lasciar trapelare i movimenti minimi del gesto, la sua immediata distensione sul piano della superficie.
Il pigmento nero contiene l’insieme dei colori e simboleggia l’origine di tutte le immagini, la vitalità spontanea di ogni cosa, il carattere spirituale dell’astrazione come espressione totalizzante.
Si tratta di dar corpo visibile ad uno spazio potenziale che trova nell’energia dominante del nero il fondamento generativo della visione, la sintesi in cui vanno configurandosi intuizioni spaziali sostenute dal magnetismo del flusso cromatico.
La costruzione del fondo monocromo non è mai misura limitante o disciplina chiusa in se stessa, è un campo espansivo che Debiasio domina come sostanza pervasa da impronte tattili in tensione armonica.
L’artista usa tela grezza leggermente stropicciata per indicare l’impermanenza delle tracce cromatiche, l’intervento manuale segue l’esigenza di infondere un’energia primordiale, una sensibilizzazione primaria predisposta per l’azione successiva delle aggregazioni di luce.
La concentrazione di questo primo impatto cromatico, di questa totalità senza referenti, esalta la sensorialità dell’atto pittorico, pone in risalto l’impulso gestuale che agisce sul caos e dà forma alla percezione dell’ invisibile. Tale impulso nasce dalla necessità di cogliere l’essenza della luce al di là del rumore del mondo, è un’attitudine che Debiasio coltiva per trasmettere quella che la sua maestra di calligrafia cinese Paola Billi ha definito “elevata vitalità ritmica del gesto calligrafico”.
* Nelle opere riunite in questa mostra le immagini prendono corpo attraverso vibrazioni magnetiche di corpuscoli, particelle cromatiche organizzate secondo assi portanti, aggregazioni lineari che possono essere uniche, doppie o plurime.
La loro disposizione gioca in prevalenza sul parallelismo delle linee e -in misura minore- sul rapporto ortogonale che è quasi sempre intuitivo, allusivo, giocato su minime distanze tra gli assi portanti, come se si trattasse di calibrare il desiderio imminente della disseminazione.
Il movimento variabile di questi affioramenti nasce dal progetto analitico che Debiasio segue sia quando determina la loro posizione sulla superficie sia quando completa la prima traccia aggregativa con piccoli tocchi che rafforzano la percezione della linea invisibile. Gli appunti che l’artista ha scritto intorno alle fasi di lavoro sono un modo esemplare di riflettere intorno al movente gestuale e al controllo analitico come polarità indispensabili al farsi dell’opera, alla sua visibilità concreta. Per evidenziare il senso spontaneo del gesto Debiasio usa piume di struzzo, alla maniera degli orientali, sollecitando il lieve aggregarsi del colore lungo il crinale invisibile intorno al quale si addensa un leggero pulviscolo, una miriade di punti cosmici.
Diversi sono i modi di aggregarsi dei minuscoli segni cromatici sul fondo nero, le risultanti lineari sono composizioni di particelle elementari mai uguali le une alle altre. Le aggregazioni si assottigliano ai bordi, si addensano e si diramano a seconda dell’impulso luminoso che le sostiene, da un minimo ad un massimo di dinamismo ottico.
Le preferenze cromatiche presenti in ogni singola opera oscillano tra il rosso, il giallo, il verde, il blù e talvolta il viola, con differenti contrasti rispetto al nero assorbente. In questo modo l’occhio può far fronte agli urti vibranti del giallo così come può abbandonarsi alle profonde sonorità del blù, senza mai rinunciare ai ritmi primordiali che segnano il naturale divenire di effetti e pulsazioni non prestabilite.
È chiaro che quando lo sguardo è costretto a oscillare tra due colori assoluti si stabilisce un meccanismo di attrazione e reazione che favorisce una lettura ambivalente della stessa immagine. Il valore del vuoto entra in tensione con quello del pieno, senza che vi possa essere una gerarchia definitiva tra il seducente velo del pigmento e l’eccitazione degli altri colori, volta per volta in relazione con l’infinito.
* A rendere mutevoli queste valenze luminose concorre anche la struttura delle aggregazioni, si tratta di valutare le diverse aree cromatiche delimitate dalle rette portanti che interferiscono con la superficie in un certo numero di possibilità.
Ci sono opere con una sola linea posta in alto, a due terzi dello spazio totale, con un denso aggregarsi del rosso che svanisce verso i lati mentre resiste al centro con tutto il suo ardore cromatico.
L’idea del dittico viene affrontata su un’unica tela con due rettangoli verticali, l’uno il doppio dell’altro, che indicano altrettanti campi di rappresentazione. Essi sono separati da una fascia bianca che deriva dalla stessa tela non dipinta, superficie dove il colore si astiene dal presentarsi, indicando la scelta dell’artista di sottrarsi all’atto di rappresentare. Le aggregazioni parallele di blù sconfinano da una forma primaria all’altra, con un’estensione percettivamente illusoria delle loro traiettorie oltre la pausa di meditazione del bianco, accentuando l’importanza di questa assenza del colore come “salto coscienziale” -cosi’ lo definisce Debiasiodel pensiero totale della pittura.
In un’altra opera, tre assi verticali e paralleli occupano in modo equidistante una tela dalla quale si sprigionano altrettante cangianze violacee, con ritmi in ascesa che si avvertono fin dal loro primordiale affiorare sulla superficie. L’oscurità cosi’ ordinatamente ripartita va di pari passo con la sequenza delle tre linee distribuendo al loro interno un medesimo peso di luci, pause necessarie alla totalità dell’immagine.
In una composizione orizzontale molto stretta, una linea arancio in espansione si interrompe e poi riprende il suo corso con un tipo di aggregazione che lascia intorno a sé sottili indici di colore in attesa di entrare nel tutto, elementi che potrebbero anche sembrare in dispersione.
Quando entra in azione il bagliore aggregante del giallo -spostato verso la destra dentro un campo orizzontale- cresce la convinzione che il suo impulso luminoso si rafforzi fino a identificarsi con tutta la superficie.
Si avverte il dilatarsi delle scintille cromatiche come vibrazioni che tengono in equilibrio l’apparente dislocazione dell’immagine, centro di gravitazione di energie cosmiche, contro ogni eventuale dissipazione.
Una più frammentata tensione pervade una tela verticale le cui aggregazioni violacee emanano nell’infinita oscurità lievi sonorità, leggeri palpiti, estremi stupori tra l’indefinito e il visibile.
Sono situazioni al limite del percettibile in cui l’aggregazione dei segni non sottolinea evidenti linee portanti ma solo stati di avvicinamento alle traiettorie luminose del pigmento. In questi casi sarebbe meglio parlare di una sospensione emozionale dello spazio dove la stabilità dell’immagine viene raggiunta volta per volta, così che l’aggregazione del colore si identifica nella complessità degli elementi in atto, nelle diverse possibilità di scegliere gli assi portanti dall’invisibile al visibile.
In altre opere dedicate alle pulsazioni vitalistiche del rosso, Debiasio esplora sia la presenza di un’unica tensione lineare sia il bilanciamento tra un elemento verticale e uno orizzontale, equilibrio simmetrico di una struttura ortogonale che non prevede l’intersezione tra le due linee, solo l’allusione ad un possibile contatto.
D’altro lato, una costruzione più complessa è quella pensata per una grande tela verticale che rappresenta un trittico costituito da un rettangolo centrale di misura doppia rispetto ai due laterali. Come avviene per i dittici e i polittici le fasce non dipinte affidano il loro peso alla scelta dell’artista di dilatare o di restringere la misura del bianco, intesa come energia del vuoto, sospensione dello spazio che si identifica con la funzione meditativa del puro valore luminoso.
In questo caso la matematica delle relazioni tra colore e noncolore, tra rappresentazione e non rappresentazione suggerisce differenti soluzioni a seconda della collocazione dei pesi cromatici e delle estensioni lineari.
In effetti, la ricerca di equilibrio comporta diverse situazioni strutturali che si bilanciano dal semplice al complesso, dall’unicità alla molteplicità, dalla singola particella cromatica alla sua accelerazione lineare, senza mai escludere soluzioni intermedie.
* Le dinamiche spaziali presenti nelle opere sono amplificate dall’artista anche nel progetto di allestimento di questa esposizione, modulata attraverso precisi accordi tra tele con aggregazioni semplici e tele con aggregazioni multiple. La mostra è studiata in modo che la disposizione sulle diverse pareti possa evocare, nell’impossibilità di corrispondervi totalmente e in modo preciso, le armonie e le dissimmetrie fissate all’interno di una singola opera.
Del resto, inventare sempre nuovi orientamenti dello spazio è una libertà che Debiasio coltiva all’interno dei presupposti matematici delle varie combinazioni lineari, autentica necessità di procedere per sconfinamenti e verifiche degli stessi spostamenti. La metodologia è infatti quella di calcolare gradualmente il peso delle diverse soluzioni, dal possesso del centro alla sua ipotetica perdita, dal valore portante della simmetria alla dislocazione delle immagini verso i margini, dalle proprietà di una soluzione alla proprietà di tutte le dimensioni.
Se infatti l’aggregazione occupa il bordo della superficie, come avviene quando l’evento cromatico gioca sul perimetro destro di una tela o su quello sinistro di un’altra, si comprende che la fissità dell’immagine è del tutto ipotetica in quanto i margini sono al centro di una nuova intuizione spaziale. In questi casi, le aggregazioni di luce verde si caricano di un’energia sfuggente che pone in secondo piano il valore convenzionale del supporto, così l’asse portante dialoga per metà con la superficie e per il resto con la parete d’appoggio.
La determinazione teorica del dipingere comporta l’esigenza di programmare ogni immagine come parte di un sistema spaziale molto più ampio, un sistema che non ammette alcun tipo di approssimazione.
Eppure, anche nel vivo di queste regole formali, i margini di lettura rimangono aperti in quanto il rapporto tra il processo esecutivo e il campo immaginativo del colore non mai dato per scontato, non è meccanico e neppure strettamente vincolato ad un’ottica di tipo scientifico. Se è vero che con la matematica si possono fissare canoni precisi, è altrettanto evidente che la pittura si serve di questi mezzi logici per emanare particelle luminose e farle aleggiare nell’indistinta vastità secondo aggregazioni congenite al gesto.
* L’atto di fissare il colore porta con sé una magia percettiva diversa, una capacità di congiungere gli elementi pittorici che nessun calcolo può prevedere, in quanto l’alchimia cromatica di Debiasio nasce dalla possibilità di captare la luce attraverso un linguaggio irripetibile. Quello della pittura, appunto, irriducibile alla logica della sezione aurea o della progressione aritmetica di cui pur si serve, insostituibile attitudine a guardare oltre i dati accertati dalle scienze, soprattutto al di là dei suoi scoperti limiti immaginativi.
Ciò che conta è predisporsi all’evento del colore come ricerca di congiunzioni mentali ed emotive, istanti magnetici che affiorano durante il processo fisico del dipingere, tramiti intuitivi che trasformano il tempo reale dell’esecuzione nel tempo cosmico della visione assoluta.
Lo stesso concetto di caos, fondamentale per giustificare le diverse organizzazioni del colore-luce, va al di là della sua possibilità di comprensione, è una situazione irreversibile che non si può guardare dal di fuori ma solo captare nelle mutazioni interne, interiori, intrinseche.
Dalla concentrazione appassionata mostrata in queste opere si comprende che l’artista si confronta con brividi lucenti più che con paradigmi inerti di colore, esplora le oscurità splendenti della materia più che limitarsi a controllare le proprietà fisiche dei mezzi pittorici.
Infine: per quanto Debiasio sia capace di analizzare ciò che fa con impeccabile rigore, la sua metrica immaginativa sembra sempre più interessata a rivelare l’insondabile natura del vedere, a sentire la pittura come soglia dell’inaspettato, a seguire sinestesie cromatiche e percorsi d’astrazione che risvegliano scintille di visioni in divenire.
Claudio Cerritelli
La ricerca dell’efficacia, Paola Billi
Il mio desiderio per Elena è stato quello di aprirle un percorso per portarla a scoprire e realizzare i propri valori e, al tempo stesso, trovare il modo di trascendere i limiti di ciò che era stato espresso in precedenza, con lo scopo principale di acquisire maggiore consapevolezza del segno e percezione dello spazio attraverso la trasmissione delle modalità dell’uso del corpo e dei sensi tipiche della tradizione calligrafica cinese.
Per aiutarla a sviluppare il suo stile e incoraggiarla nella ricerca di un segno distintivo ed efficace, senza sprofondare nel concetto di coltivazione del sé proprio del mondo del letterato-artista e al di là delle specifiche conoscenze tecniche della scrittura han, ho fatto del mio meglio per garantirle un modello appropriato di insegnamento che onorasse sia la disciplina che l’espressione creativa, che premiasse lo sforzo e il suo talento e che comunicasse l’elevata vitalità ritmica del gesto calligrafico.
Il pennello cinese in pittura e calligrafia aggiunge un valore unico nel momento in cui viene messo l’inchiostro sulla carta: ogni pennellata dichiara la totalità delle esperienze dell’artista. L’arte occidentale compone sinfonie di colore e luce e crea texture e profondità prospettica. In un’epoca di scambi che permettono una fusione di tradizioni senza precedenti, oggi è reso possibile il tentativo di usare i mezzi espressivi di entrambe le culture.
Elena ha colto in pieno e con straordinaria capacità l’opportunità ditrasformare e personalizzare questa possibilità, realizzando un originale linguaggio visivo ed estetico che cattura lo spirito del tempo.
Paola Billi ( Xizi ) – Artista e Maestra di Calligrafia Cinese
Eventi di pittura, Giorgio Bonomi
Dovendo parlare dei tuoi lavori, credo che possiamo trovare più facilmente concetti e termini appropriati nella filosofia, sia in quella razionalistica occidentale che in quella sapienziale orientale, e nella fisica contemporanea, piuttosto, e non solo, che nell’estetica e nella storia dell’arte.
Così già alla prima visione di un tuo quadro, mi viene in mente il concetto di “evento”, come la fisica contemporanea, soprattutto Einstein prima e Whitehead dopo, lo definisce. “Il mondo degli eventi può venir descritto dinamicamente mediante un’immagine mutevole con il tempo e proiettata sullo sfondo dello spazio tridimensionale. Ma può anche venir descritto mediante un’immagine statica, proiettata sullo sfondo del continuo spazio-temporale a quattro dimensioni”1. È il matematico e filosofo inglese, Alfred North Whitehead, che poi ha generalizzato il concetto einsteiniano e ha parlato di “eventi puntiformi” che “possiedono una ‘posizione’ l’uno rispetto all’altro” 2, e che costituiscono un sistema spazio-temporale.
Se sostituiamo il termine “evento” con “immagine” e “punto” (o “evento piccolo”) con “segno”, abbiamo la descrizione di una tua opera.
Bene, se è così ci piacerebbe leggere una tua descrizione di un quadro, operando le sostituzioni a cui alludi. Per noi sarebbe davvero interessante e importante.
Sulla superficie della tela si ha “l’evento”, qui appaiono i segni, i punti di colore; questi non sono statici ma guizzano in un moto senza sosta; il movimento è anche “tempo”, infatti un qualcosa, anche minimo, per mutare posizione ha bisogno di un certo lasso di tempo, anche se è infinitesimale, quindi si tratta sempre di durata. È qui che, alle tre dimensioni del quadro (altezza, larghezza e profondità) si aggiunge la quarta dimensione quella, appunto, del tempo. I segni di colore possono considerarsi “eventi piccoli” che sono eventi nell’attimo in cui si accostano sulla tela e cominciano ad aggregarsi ai precedenti, mentre l’opera finita è l’evento
Inoltre, tu usi la parola “aggregazione” come titolo per ogni tuo quadro, e sai che “aggregato” è sinonimo, nella matematica e nella logica matematica contemporanee, di “insieme”, cioè di una somma o quantità di cose che, pur nella unità, conservano le loro caratteristiche e la loro individualità.
Giusto, infatti noi parliamo di particelle di materia disorganizzata ma intelligente, sensibili all’attrazione di un fattore magnetico aggregante, che le attira a sé, sottraendole al caos e dando ad esse un senso, un’organizzazione, un ordine. Particelle di varia natura e vibrazione che, passando dal far parte del caos al far parte dell’ordine, concorrono al graduale formarsi di una aggregazione.
Aggregazione, dunque, di atomi, di particelle originarie, di corpuscoli, di flussi di energia, di forze di un campo. Ancora Einstein: “Una volta riconosciuta l’equivalenza fra massa ed energia la divisione tra materia e campo appare artificiosa […]. Ciò che fa impressione sui nostri sensi come materia è in realtà una grande concentrazione di energia, in uno spazio relativamente limitato”3.
Quello che dici è molto importante. È la grande concentrazione di particelle aggregate che le rende riconoscibili (fa impressione sui nostri sensi) in un ente maggiore (la linea), ascrivendole alla categoria dell’ordine e non più alla irriconoscibilità di quando erano disperse nella sterminata moltitudine caotica. Eppure, anche in quella dimensione esisteva già, fra esse, un ordine latente, perché tutte ugualmente sensibili all’ente che, nel costituirsi, le avrebbe attratte a sé: seppur disperse lo erano già.
Ecco: i tuoi segni, i tuoi punti di colore sul fondo nero, che nell’infinitamente grande appaiono come costellazioni e nell’infinitamente piccolo come gli elementi atomici più piccoli in attrazione-repulsione, in corsa centrifuga e centripeta, in aggregazione magnetica, costituiscono proprio un campo di energia sulle quattro dimensioni, le tre spaziali più il tempo.
Certo, ma vorremmo dire che tutto ciò non rappresenta soltanto la graduale formazione di quello che viene percepito come il mondo fisico, ma anche aggregati di elementi di materia meno percepibile, come quella che va a formare un pensiero, e un insieme di pensieri che vanno a formare concetti, e un insieme di questi una concezione. Tutto ciò avviene, contemporaneamente, sul piano mentale, sul piano emotivo/sentimentale e su quello fisico. Quella delle aggregazioni vuole essere una rappresentazione simbolico/pittorica del fatto che il principio regola tutto ciò che esiste, visibile e invisibile, percepibile e non percepibile.
Senza dubbio l’aggregazione non è solo un processo che riguarda la fisica, ma anche il mondo del pensiero e, più in generale, per usare un termine desueto, quello dello Spirito.
Non a caso Derrida, riferendosi al linguaggio, parla della “disseminazione” di segni e di parole che, al di là della dispersione, vanno a costituire un discorso o una scrittura: “[…] Di ciò che si chiama ‘linguaggio’ (discorso, testo, ecc.) […], ogni termine è un germe, ogni germe è un termine. Il termine, l’elemento atomico, genera dividendosi, innestandosi, proliferando. È una semenza e non un termine assoluto”4.
Se poi ci avviciniamo alle arti figurative, io stesso ho usato il termine “disseminazione” per un mio libro5 in cui questa categoria serve ad analizzare quegli artisti (quelle opere) che si presentano con una frantumazione di un’unità originaria – reale o mentale – i cui “pezzi” restano tali oppure “ri-acquistano” una forma, secondo la regola che “la somma delle parti non è mai il semplice insieme di queste”.
Ma voi avete toccato un altro punto, quello delle forze visibili ed invisibili: non c’è dubbio che, restando sulla superficie di un tuo quadro, i segni di colore hanno tra loro un rapporto (attrazione/repulsione, aggregazione…) e con la percezione possiamo cogliere i loro rapporti scalari (misurabili), ma per afferrare quella forza (l’energia) che contengono serve l’intuizione, serve un occhio con capacità differenti dalle leggi dell’ottica, qualcuno dice che serve il sentimento altri un processo iniziatico o altro ancora, io mi limito ad affermare che occorrono facoltà non misteriose6 bensì “arazionali” prima e razionali poi, per trasformare l’intuizione in concetto e in giudizio.
Tu parli di intuizione, per noi è fondamentale: il concedersi all’arazionalità è una vera risorsa, ma anche una lotta titanica con se stessi. Serve inoltre tener presente che certe energie non si afferrano, ma vengono, si rivelano, si palesano in presenza di vuoto (emotivo e mentale), quindi nella non presenza; altrimenti non trovano spazio per insediarsi nella coscienza. Ma quando ciò inizia ad essere possibile esse travolgono tutti i valori precedentemente acquisiti o alterano i loro pesi nella vita, oppure trasformano vizi in virtù e viceversa. Questi ribaltamenti si trasferiscono poco a poco nel razionale, fino a costituire una nuova razionalità, inedita, stupefacente, dirompente. Ecco: questa è una nuova aggregazione in atto, e il fattore magnetico aggregante è la volontà, non comune, di apprendere il nuovo da una dimensione altra, vergine, di cui si ha intuizione, appunto, e si conosce intimamente l’esistenza (quasi sempre indimostrabile). Miriadi di punti, di particelle rimaste fino ad allora ferme, neutrali ma sensibili, sono attratte a formare la nuova coscienza. L’intuizione, portatrice di nuovi mondi, risponde unicamente all’assenza di pensiero, di giudizio o pregiudizio, ma anche di emozioni, attaccamenti o prefigurazioni, altrimenti i suddetti nuovi mondi saranno quelli che noi avremo desiderato, non quelli pronti per noi, che la dimensione vergine, attraverso l’intuizione ci potrebbe rivelare e portare.
Su questi argomenti ci aiuta ancora la filosofia del “vecchio” Hegel che parlava del “passaggio dalla quantità alla qualità” e viceversa; concetto che fu poi ripreso, in forme diverse, da Engels, nella Dialettica della natura7, per giustificare il suo materialismo, e da Kierkegaard che, con grande acutezza, parlava di “salto” per alcuni passaggi da uno stato ad un altro e non solo nel campo fisico.
Tale concetto noi possiamo qui applicarlo al “salto” che gli elementi primi aggregati sulla tela “devono” fare per costituire un “evento”, per raggiungere uno stato qualitativo differente (superiore) alla somma dei singoli segni, e al “salto” che deve fare l’occhio e la mente dello spettatore per una comprensione profonda.
Dunque abbandono degli abituali strumenti di approccio, imprescindibile necessità di vuoto, in una parola “rinuncia” al nostro pieno affinché, attraverso l’intuizione così risvegliata, la ricerca possa avvenire in territori vergini, incontaminati, privi delle stratificazioni prodotte dal pensiero e dal sentire umani, aprendosi in questo modo a possibilità e mondi nuovi: l’uomo nuovo.
Di quanto detto sopra si tratta nelle opere costituite da“Aggregazioni/dittici o trittici”.
Nonostante le suddivisioni che li caratterizzano, i dittici, trittici e polittici costituiscono un’unità.
Nel nostro caso l’elemento unificante è la tela, unica, sulla quale viene eseguito il lavoro. Importanti sono i riferimenti simbolici. La tela, (o superficie di qualsiasi tipo), grezza, vergine è l’inizio di tutto, “il prima di ogni cosa”. Non si intende soltanto la superficie nella sua fisicità incontaminata. Nella sua misteriosità non si può neppure definire dimensione o luogo. È prima della rappresentazione e luogo della rappresentazione stessa. L’idea lì si deposita o emerge; lì rappresenta se stessa. La tela bianca, grezza, vergine è, simbolicamente, la non-rappresentazione, la chiara scelta di non rappresentare.
La non-rappresentazione tra due campi di rappresentazione è una scansione spazio-temporale: avviene lì, in quel punto e avviene lì, in quel momento; dividendo sia lo spazio precedente da quello successivo che il tempo precedente da quello successivo. In un dittico, trittico o polittico dipinto su un’unica tela è inequivocabile la scelta di far vincere, nelle zone del quadro in cui questo è stabilito, la non-rappresentazione. Qui l’idea si astiene dal manifestarsi, rinuncia a rappresentarsi.
Ma, essendo tutto rappresentazione, (anche la tela non dipinta), diremo che quanto detto sopra è la rappresentazione della non rappresentazione, spiegando quest’ultima come il massimo azzeramento di ogni possibile intervento sulla tela vergine: la rinuncia consapevole all’azione pittorica.Nessun intervento, nessuno strumento si poserà su quelle zone, lasciandole simbolicamente libere da ogni nostro appesantimento. Nella nostra inazione, ci dichiariamo pronti e ricettiviad ogni segno proveniente da quel livello. Una perfetta unità di intenti quindi fra l’idea, che non chiede di essere rappresentata e chi la rappresenta, o dovrebbe rappresentarla, che si astiene dal farlo.
Ancora un fondamentale problema filosofico: quello che Aristotele definiva come “potenza ed atto” (per esempio, il seme è l’albero in potenza e l’albero è il seme in atto) e che già Platone aveva posto parlando della “parusia” (presenza) dell’Idea (universale) nelle cose sensibili (particolare), si tratta cioè di come e da dove la realtà “appare”.
Ancora Hegel ci supporta, quando vede nell’apparenza fenomenica l’essenza stessa. “L’apparire è la determinazione, per mezzo di cui l’essenza non è essere, ma essenza; e l’apparire sviluppato è il fenomeno. L’essenza perciò non è dietro o di là dal fenomeno; ma per ciò appunto che l’essenza è quel che esiste, l’esistenza è fenomeno”8.
La tela, or dunque, come luogo degli accadimenti, come spazio originario dell’evento, come possibilità di senso, prima ancora che probabilità, insomma come “origine” e “fondamento”.
Forse è proprio per rimarcare questi concetti che il quadro da “pieno di colore” si presenta ora anche con zone “neutre”, “vuote”, semplice campo di tutte le possibilità: ecco i dittici e i trittici.
Se andiamo un momento alla storia dell’arte più recente, non posso non ricordare i dittici di Carmengloria Morales, artista non a caso della Pittura analitica degli anni ’70, che avvicina una tela dipinta ad una grezza, come, appunto, origine dell’altra.
Allora, abbiamo detto che possiamo considerare la tela come il luogo dell’epifania dei segni e del colore, i quali, si è visto, sono questo ed anche qualche cosa di più, essendo composti di energia, di forze magnetiche in attrazione e repulsione eccetera.
Trovo molto interessante questo desiderio/necessità di allargare le zone “neutre”, come già è avvenuto, certamente con intenzioni e in atmosfere assai differenti, in Morris Louis che “allontana” la pittura dal centro della tela, portandola ai margini del quadro, e in Claudio Verna, un altro artista “analitico”, che esegue dei monocromi (siamo negli anni ’70) ma lascia ai bordi una pittura altra, ponendoci l’enigma se si tratti di allontanamento o di ritorno.
Altri artisti negli anni del concettuale “radicale” hanno lasciato sola la tela bianca o, addirittura, solo il telaio, estremizzando la “riduzione” e l’ “azzeramento”, pratiche tipiche di questi artisti.
Ma dobbiamo ricordare anche tutta la teoria relativa al monocromo, per cui la singolarità del colore può contenere tutta la pluralità cromatica, suscitando forti emozioni e coinvolgimenti. Qui ricordiamo solo “il padre del monocromo”, Kazimir S. Malevič, che affermava, a proposito del suo Quadrato bianco su fondo bianco (1918): “Il bianco infinito suprematista dà al raggio visuale la possibilità di avanzare, senza incontrare limiti”9. Ed ancora: “In fisica il colore e la forma possono essere considerati come degli elementi separati, ma nella creazione artistica essi non possono essere considerati come i due elementi diversi che servono a definire la sensazione, perché il colore e la forma sono il risultato di una sensazione unica”10.
Ma torniamo ai dittici e ai trittici…
Nei dittici e trittici più recenti la parti di tela vergine vanno espandendosi (foto 4 - 5 - 6) come, nell’inazione, può accadere alle facoltà intuitive. Simbolicamente sono ricche di possibilità: in un trittico presente in questa mostra le due zone che separano i tre elementi del lavoro sono state sostituite da due finestre verticali dello spazio espositivo (foto 7). L’opera è stata concepita in funzione e sui numeri di queste due grandi fonti di luce, due aperture che consentono alle peculiarità dell’esterno di entrare, ma esse sono anche potenzialità per chi dall’interno aspira all’“altro” dell’esterno.
Alla Galleria LIBA di Pontedera, invece, una lesena costituiva, in tutta la sua altezza, l’elemento unico divisorio comune ai tre dittici sovrapposti che compongono l’opera (foto 8). In questo caso la parte di tela vergine dei tre dittici cedeva il posto al semipilastro, aggettante rispetto alla parete e all’opera, elemento insondabile, simbolo di sostegno, un cardine, un asse portante, collegamento fra alto e basso.
L’utilizzazione di elementi architettonici è importante, perché simbolicamente evoca una “Architettura Ideale”, nella quale il ciclo non si esaurisce nel trinomio “progettare - costruire - abitare”, nel quale l’architetto aggrega elementi progettuali atti a costruire un ambiente nel quale l’uomo possa vivere al meglio, ma prosegue vedendo l’uomo come architetto di se stesso, per “progettare - costruire – abitare” la propria ascesa.
Progettare | ↓ | Costruire | ↓ | Abitare |
→ | ||||
Abitare | ↑ | Costruire | ↑ | Progettare |
Certo tu non componi “monocromi” e il tuo concettualismo – per altro mai disgiunto da una grande manualità tecnico-pittorica – non è tutto interno solo all’estetica, risentendo moltissimo di influenze filosofiche, scientifiche, etiche, tuttavia mi sento di poterti, in un qualche modo, riallacciare a quel grande filone dell’arte contemporanea che, appunto, è il “concettualismo pittorico”.
Hai toccato un altro tasto a cui sono molto sensibile, l’architettura, ma possiamo in questo momento solo limitarci ad un accenno.
Condivido l’analogia tra il “costruire un edificio” e “costruire un uomo”, ricorda che uno dei fondatori dell’architettura moderna, Le Corbusier, progettava tenendo conto delle proporzioni dell’uomo-tipo, il “Modulor”, una sorta di “canone” contemporaneo con il quale, così, si manteneva l’architettura in una pratica umanistica e non già meramente tecnica.
Ma andremmo troppo lontano: lasciamo questo punto per un’altra occasione. Per finire vorrei, però che accennaste come le scienze matematiche rientrano nel lavoro pittorico, infatti questo presenta anche proporzioni determinate e la sezione aurea, elementi utilizzati sì per la composizione formale ma che sottintendono altre pulsioni, emotive e razionali.
Il simbolo e la rappresentazione sono elementi fondamentali dell’arte. Noi guardiamo un’aggregazione e veniamo attratti, colpiti, destati dal grande simbolo, dalle sue proporzioni, la sua solennità, i suoi equilibri e i suoi squilibri (o equilibri ancora sconosciuti?). Poi il rapporto col lavoro cambia e ci troviamo a percorrere la rappresentazione che il simbolo fa di sé nello spazio-tempo: le sue tortuosità, le sue sfumature, le sue luminosità e le sue tenebre. Persi in questa infinita moltitudine di punti caotici dobbiamo rammentare a noi stessi la perfezione della sua visione completa.
Gli eventi, nel loro divenire e nella loro complessità, sono regolati da determinate proporzioni. Un’aggregazione che si interrompe e, dopo una pausa, riprende il suo formarsi; due linee ortogonali che fanno presagire il loro futuro incontro: tutto avverrà in un punto spaziale armonico, regolato da un tempo armonico. Come quando la non rappresentazione irrompe scindendo la rappresentazione e trasformando un’opera unitaria in un dittico. Forse la caduta di S. Paolo doveva avvenire lì, in quel momento… Non prima?… Non dopo?… Quel momento, dopo il quale la vita riprende, ma non più come prima, non può che essere un punto aureo nell’esistenza di un’entità...
Quella, appunto, del grande “evento”, quello dell’epifania della Pittura…
a cura di Giorgio Bonomi
Note
- [1] Albert Einstein e Leopold Infeld, L’evoluzione della fisica, trad. ital., Edizioni Boringhieri, Torino 1965, p. 218.
- [2] A. N. Whitehead, Il concetto di natura, trad. ital., Einaudi Editore, Torino 1975, p.91.
- [3] A. Einstein e L. Infeld, op. cit., p. 253.
- [4] Jacques Derrida, La disseminazione, trad. ital., Jaca Book, Milano 1989, p.316.
- [5] G. Bonomi, La disseminazione. Esplosione, frantumazione e dislocazione nell’arte contemporanea, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2009
- [6] Certamente non credo alle “forze misteriose”, già alcuni secoli fa Isaac Newton aveva criticato che sosteneva le “qualità occulte” come cause del manifestarsi dei fenomeni al di là dei corpi, teorizzando correttamente che si trattava solo di cause che dovevano essere scoperte e conosciute, come era avvenuto con le cause della gravità o dell’attrazione magnetica ed elettrica.
- [7] F. Engels, Dialettica della natura, in Karl Marx e Friedrich Engels, Opere XXV, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 357 - 363
- [8] G. G. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. ital., Editori Laterza, Bari 1963
4 , p.125.
Vorrei ricordare che, prima di Hegel, Immanuel Kant aveva teorizzato il concetto di “fenomeno” e “noumeno”, in cui il secondo era la “realtà” ultima e profonda di ciò che appare ai sensi (il fenomeno); e dopo, invece, Martin Heidegger recupera il significato greco di “fenomeno” come “ciò che si manifesta, il manifestantesi, il rivelato […]. Quale significato dell’espressione ‘fenomeno’ è quindi da tener ben fermo il seguente: ciò che si manifesta in se stesso, il rivelato”, così si deve distinguere “fenomeno da apparenza considerando quest’ultima come una modificazione privativa di fenomeno”. (M. Heidegger, Essere e tempo, trad. ital., Fratelli Bocca Editori, Milano, Roma 1953, p. 39. - [9] K. S. Malevič, Scritti, trad. ital., Feltrinelli Editore, Milano 1977, p. 197.
- [10] Idem, (corsivo dell’autore) p. 347.
Federico Carlo Simonelli
L’opera di Debiasio s’inscrive nel campo della più profonda riflessione attorno alla materia, al suo ruolo e al suo significato nel mondo contemporaneo in perenne ripensamento. In Aggregazioni, il segreto della materia, da semplice mezzo, viene elevato a meta di un’intensa indagine nei meandri più profondi della plasmazione. L’opera presenta, in un binomio tra vapore aereo e vorticare di atomi, l’atto primo di un ordine nel Caos: in una nebulosa candida e indefinita, un anelito magnetico eccita e concreziona particelle impalpabili di materia viva attorno ad un centro - o ad un asse - invisibile.
È l’aggregazione originante; comunicata attraverso piccole applicazioni intagliate come schegge, il cui brulicare impercettibile si agita e vortica senza apparente fine, come un turbinare di atomi in un fascio di luce intensissima. E proprio nel gioco della luce si rileva il protagonismo quasi assoluto della materia. Assi e reticoli, anch’essi principi o fini di stadi aggregativi nella nebulosa primordiale, emergono dal campo bianco attraverso il rilievo e l’ombra; le applicazioni turbinanti, nei riflessi, dialogano con la luce restituiscono l’impercettibilità del movimento in un vuoto senza tempo o all’inizio del tempo. L’equilibrio coerente della composizione si combina con la richiesta - il bisogno - di avvicinarsi e penetrare nel vuoto, in un’esplorazione naturalmente ed istintivamente intrapresa dal generale al particolare e dal dettaglio all’universale.
La pulizia, l’equilibrio, l’applicazione calibrata restituiscono il senso di una materia raccontata come mezzo e fine. Nel superamento del dualismo definito-indefinito, nel richiamo all’abisso minerale, onirico e siderale, Debiasio affronta il vuoto non come luogo d’immobile oblio ma come momento d’incomprimibile e brulicante ri-creazione. E nel raccontare l’aggregazione, concetto fondativo di ogni scienza naturale e sociale, Debiasio affronta un doppio registro di rigore formale e di radicale ripensamento ab origine del Segno. Con alto lirismo polverizzato, qui la materia narra sè stessa come prologo e fine di ogni infinito orizzonte creativo.
Intervista per Stile Arte
Iniziamo con una breve scheda anagrafica, come se leggessimo una carta d’identità. Sotto il profilo della produzione artistica può immediatamente specificare il suo orientamento stilistico ed espressivo?
Sono nata, vivo e lavoro a Milano. Qui ho frequentato una scuola d'arte particolarmente orientata all'illustrazione e alla pittura iperrealista, mia prima grande passione. Per anni ho dipinto quadri il cui minuzioso realismo non era una gara con la fotografia, ma - ne prendevo piano piano coscienza - la manifestazione del desiderio di entrare nelle cose, di rappresentare i mondi interiori. Una estremizzazione di questa ricerca è stato il fotografare pezzetti di stoffa non più grandi di tre o quattro centimetri, ingrandire la foto e ricavarne dipinti a olio grandi un metro per un metro e mezzo, rappresentando ogni filo e ogni intreccio, con le rispettive ombre e luci. E forse ancora di più il periodo che ho chiamato “iperrealismo astratto”, quando su grandi quadri dal fondo nero, un unico sottilissimo filo appariva e veniva suddiviso in altri “sottofili”, e ancora, ancora, per poi gradualmente ricostituirsi fino a ritornare ad essere un unico sottilissimo filo che “usciva di scena”.
Una vera e propria rivoluzione copernicana è stato l'incontro con la maestra e artista internazionale di calligrafia orientale Paola Billi. Con lei ho studiato il segno, il gesto, il rapporto fra il corpo e la superficie, una superficie molto grande, sulla e nella quale stai, vivi e realizzi l'opera. Il ciclo “Gesti di luce”, grandi opere di 3m x 3m, sono stati il frutto della conoscenza di nuovi strumenti, come i grandi pennelli della calligrafia cinese e giapponese.
L'indagine sul segno e la sua frammentazione mi hanno, in seguito, portato alle riflessioni sulla grande legge universale del magnetismo, che mi si evidenziava osservando che il segno è, in fondo, un insieme più o meno grande di microelementi, da noi percepito come un'unica entità. Inizia così il lavoro sulle Aggregazioni, che ancora oggi mi affascina e mi impegna.
Venendo al punto attuale della mia ricerca e premettendo che definire e incasellare è sempre abbastanza difficile, posso dire che mi muovo nell’ambito di una microgestualità, temperata dalla successiva cura di ogni particolare, un modo di procedere assimilabile a quello iperrealista (ecco riaffiorare il mio antico amore). E' pure presente, sottostante, la ripartizione geometrica della superficie, secondo numeri e proporzioni, come la sezione aurea, mai casuali; il tutto, però, con un trattamento del supporto che in me rievoca uno spazio profondo e costantemente fecondo di eventi.
Nell’ambito dell’arte, della filosofia, della politica, del cinema o della letteratura chi e quali opere hanno successivamente inciso, in modo più intenso, sulla sua produzione? Perché?
La semplicità, poesia, potenza, di Mark Rothko. L'armonia, l'equilibrio di Mondrian. La disinibita libertà di Pollock. L'estrema essenzialità del minimalismo di Judd. Il “non finito” michelangiolesco. Il coinvolgimento che mi procurano le teorie del campo e del bosone di Higgs. I cieli di Van Gogh con il loro vorticare di energie. La levità delle sculture di Fausto Melotti. La pittura di Turner, carica di movimento e di luce. Il concetto filosofico di monade, espresso da Leibniz. Sono tanti, forse troppi per rievocarli tutti qui i richiami, gli spunti dall’esterno che entrano in sintonia con la mia sensibilità. E forse, più che incidere, come dice la domanda, sulla mia produzione, essi mi accompagnano e con essi procedo.
Può analizzare nei temi e nei contenuti l'opera da lei realizzata e presentata al Premio Nocivelli, illustrando le modalità operative che hanno portato alla realizzazione?
L’opera presentata al Premio Nocivelli si intitola “Aggregazioni”, tema che caratterizza la mia ricerca degli ultimi anni.
Un punto magnetico invisibile si muove nello spazio,
attirando a sé elementi, corpuscoli che lo rendono manifesto.
Tutto è aggregazione.
Il magnetismo che ogni idea ha in sé aggrega i microelementi che la manifestano.
La rappresentazione è rarefatta, corpuscolare.
Le particelle sono entità distinte, monadi che non perdono la propria identità.
Nel grande bianco, mosso dalle tensioni e alterazioni della superficie,
la luce agisce con tutte le sue potenzialità, in modi sempre diversi e inattesi.