La struttura dell'Iki

Curare oggi una mostra dedicata all’iki è operazione che va letta in almeno due direzioni. Da un lato, infatti, l’iki, forse proprio in virtù della sua inafferabilità concettuale, è spesso erroneamente considerato una sorta di sinonimo della sensibilità giapponese in generale: esporre quindi un’arte iki, oltre che una sfida, rappresenta un atto di responsabilità, in un panorama in cui la pseudo-cultura facilona ama collezionare etichette senza verificare la validità e pertinenza dei loro referenti. Nell’avvicinarsi alle culture lontane, anche quando di fascino diffuso o di globalizzazione radicata, si tende a considerarle come altrettanti “aggettivi”, magari estesi dal punto di vista semantico, e tuttavia sempre leggibili allo stesso modo, sempre rapportabili a un generico profumo filosofico del quale ci accontenta troppo spesso: così che il gusto giapponese, ad esempio, oltre a perdere in ricchezza e varietà, risulta anche appiattito sul piano storico, come una modalità espressiva sempre più o meno simile a se stessa. Sia dunque chiaro che l’iki, che pure incarna alcuni degli elementi-chiave di questa estetica, è innanzitutto una categoria storicamente definita, e proprio per questo altrettanto esclusiva. Chiedere a un gruppo di artisti – alcuni dei quali giapponesi – di lavorare sull’iki è pertanto un tentativo di fare chiarezza sull’effettiva estensione del termine.

In secondo luogo, proprio la concretezza storica dell’iki lo rende una categoria appartenente al passato, ormai estranea a qualsiasi giudizio di valore sull’oggi. L’iki costituiva una dei principali valori estetici del Periodo Edo (1603-1868), e va riferito ad esso, al suo sentimento di chiusura verso l’esterno, alla sua squisita ricerca di una specificità stilistica che si basasse su una struttura profonda di tipo filosofico. Fare arte iki oggi, dunque, significa richiamare criteri formali e principi etici che non ci sono più. Da qui un’ulteriore sfida, quella di evitare i caratteri spenti e scolastici dell’”omaggio” a un passato con il quale si vuole rimanere, al più presto, esenti da debiti: piuttosto, le opere qui esposte intendono far risuonare questa categoria, come un antico strumento che, seppur lontano dalle sonorità cui siamo abituati, tuttavia produce ancora suono, e merita di essere messo al confronto con la nostra sensibilità. Definire l’iki è impresa ardua, tanto che il suo più illustre teorizzatore (a posteriori), Kuki Shūzō, prodigo di avvertenze per l’uso, nel suo volume La struttura dell’Iki (ed. italiana Adelphi) rinuncia a fornire una spiegazione che sia efficace a prescindere dall’esperienza concreta: come tante parole di qualsiasi lingua (tra cui «arte», direbbero i disillusi), l’iki è più facilmente riscontrabile in un oggetto concreto che esprimibile tramite un concetto astratto. È quindi opportuno parlare di «struttura», proprio perché l’iki, come molte categorie giapponesi, è quasi una vicenda, un percorso, piuttosto che un predicato statico. Nell’iki è fondamentale il rapporto tra la seduzione, ossia l’espressione di una dualità tra componenti che si attraggono («sessuate», direbbe Shūzō), una forza spirituale che la nobilita, e una successiva rinuncia che impedisce all’attrazione di trovare sfogo. La «seduzione» è categoria ricorrente nelle letture della nostra postmodernità occidentale; se però, ad esempio in Baudrillard, essa implica il soggetto-spettatore come elemento “sedotto”, nell’estetica iki la dualità è interna all’oggetto: iki sono pertanto le linee parallele, specie verticali, che esprimono appunto una dualità che non prevede di risolversi.

Anche la scansione tripartita della “struttura” sembra richiamare a saperi occidentali, con la differenza che nell’iki, come in molte espressioni del pensiero giapponese, non c’è dialettica, e tra gli elementi non c’è opposizione. Piuttosto, l’elemento che chiude la struttura ha la funzione di illuminare, di far risplendere (“risuonare”, potremmo dire nuovamente) l’elemento di partenza, conservandone al purezza: la seduzione è tale, nel suo significato più puro, proprio perché non è mai dissolta nel suo soddisfacimento. La rinuncia lascia chi guarda in un territorio “di mezzo” tra momenti dell’anima che proprio nel loro illuminarsi senza entrare in contatto trovano una logica formale perfetta, tale da giustificare, in un certo senso, le sempre parziali e insoddisfacenti traduzioni del termine iki, come «grazia», «calma sofisticazione» e così via. Un ultimo dettaglio, che forse aiuta a capire lo spirito con il quale questi artisti, oggi, sono stati messi di fronte alla sfida: Kuku Shūzō, nel trattare il senso dell’iki nel suo rapporto di opposizioni e analogie semantiche con altri termini, lo scrive in hiragana, scrittura fonetica, al contrario delle altre parole, per le quali non esita ad utilizzare gli ideogrammi; quasi a mantenersi equidistante da tutte le interpretazioni visualmente troppo radicali. La stessa parsimonia guida i nostri artisti, chiamati non a seguire un set di piatte regole formali – che pure sarebbero deducibili, a una lettura superficiale, dal libro di Shūzō – ma a lasciarsi animare dalla vicenda interiore che, unificata sul piano temporale nell’opera d’arte, costituisce la “struttura” dell’iki.

Kevin McManus